presentato il 21/12/2012 in Assemblea del Senato da Donatella PORETTI (PD) e altri 2 cofirmatari ... [ apri ]
status: Respinto
testo emendamento del 21/12/12
Il Senato,
in sede di esame del disegno di legge n. 601-711-1171-1198-B,
premesso che:
la previsione all'articolo 41, comma 11, reca un vero e proprio divieto di retribuzione a favore dei praticanti avvocati nei primi sei mesi di tirocinio, in violazione evidente dell'articolo 35 della Costituzione e, dato il diverso trattamento per il caso di pratica presso enti pubblici ed Avvocatura dello Stato, anche in evidente violazione dell'articolo 3 della Costituzione. In tal senso depongono, nel corso della seduta 366 del 26 novembre 2012 della Commissione Lavoro del Senato, gli interventi dei senatori Ichino, Castro, Cristina De Luca, Passoni, e del Presidente della Commissione Giuliano (i quali, inoltre, hanno rilevato la contraddizione - incostituzionalità per disparità di trattamento - con quanto stabilito in tema di apprendistato nel decreto legislativo del 14 settembre 2011 e confermato nella legge n. 92 sul mercato del lavoro), nonché il seguente parere espresso dalla Commissione Lavoro del Senato: «La Commissione lavoro, previdenza sociale, esaminato il disegno di legge in titolo, esprime, per quanto di competenza, parere favorevole, evidenziando tuttavia rilevanti perplessità sull'articolo 41, comma 11, modificato nel corso dell'esame presso l'altro ramo del Parlamento, che sembrerebbe imporre, di fatto, un divieto di erogazione di indennità o compenso ai praticanti durante il primo semestre del tirocinio stesso. La disposizione, oltre a confliggere con l'articolo 35 della Costituzione, introduce una immotivata quanto ingiusta sperequazione tra il tirocinio effettuato presso l'Avvocatura dello Stato e gli enti pubblici e gli studi legali privati. Si sollecita pertanto la Commissione di merito a tenere in considerazione quanto sopra ed a rivedere la disposizione in parola.»;
con la previsione di ingiustificabili privilegi (articolo 3 della Costituzione), in tema di prova della continuità dell'esercizio della professione e di adempimento del dovere di formazione professionale, il testo proposto opera a vantaggio dei parlamentari avvocati e dei membri degli organi legislativi rispetto a tutti gli altri avvocati. Mentre la Corte di giustizia europea, con indirizzo ben consolidato, «si è espressa sempre contro norme che individuano nella continuità di un'attività professionale il requisito cui venga subordinato il riconoscimento di un qualsiasi beneficio, la possibilità di accesso a uno status determinato, una qualifica o un trattamento, e ciò lo ha fatto a tutela della dignità del professionista poiché ravvisava in tali norme possibilità di discriminazione anche indiretta a scapito delle donne e dei soggetti deboli in genere» (così scriveva Lilla Laperuta in un articolo del 17 aprile 2012 su www.diritto.it) il testo in esame prevede che un avvocato sia cancellato dall'albo per mancato esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione. Eppure, di tale principio non si fa applicazione nei confronti dei parlamentari avvocati (il comma 6 dell'articolo 21 prevede: «La prova dell'effettività, continuità, abitualità e prevalenza non è richiesta durante il periodo della carica, per gli avvocati componenti di organi con funzioni legislative o componenti del Parlamento europeo»). Una sottocategoria la cui maggioranza, nei due rami del Parlamento, si è squalificata, in questa legislatura, avallando la costituzione in giudizio delle Camere dinanzi alla Corte costituzionale contro la magistratura per conflitti di attribuzione palesemente infondati (vedansi le sentenze della Corte costituzionale nn. 87 ed 88 del 2012), rivendica così la possibilità per i suoi aderenti di continuare, durante il loro mandato, ad essere iscritti negli albi degli avvocati e ad esercitare la professione senza limiti, nonostante sia evidente e sacrosanto che la democrazia elettiva impone che il parlamentare deve alla Nazione un effettivo, continuativo, abituale e prevalente esercizio del mandato parlamentare al quale va sacrificato l'effettivo, continuativo, abituale e prevalente esercizio della professione di avvocato;
la previsione, all'articolo 19, di un divieto di iscrizione all'albo forense per gli insegnanti delle scuole elementari, rappresenta una violazione evidente degli articoli 33 e 3 della Costituzione. Non a caso la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 226236 del 2010) statuiva che «secondo quanto afferma la Corte costituzionale nella sentenza n. 390 del 2006, l'eccezione al regime di incompatibilità stabilita dall'articolo 3, comma 4, lettera a), regio decreto-legge n. 1578 del 1933, deve essere considerata «principio costituzionale della libertà di insegnamento (articolo 33 della Costituzione), dal quale discende che il rapporto di impiego (ed il vincolo di subordinazione da esso derivante), come non può incidere sull'insegnamento (che costituisce la prestazione lavorativa), così, ed a fortiori, non può incidere sulla libertà richiesta dall'esercizio della professione forense». Se questa è la ratio d'ogni possibile eccezione all'incompatibilità tra professione forense e attività di insegnamento, allora appare evidente la incostituzionalità della norma dell'articolo 19, che limita l'eccezione all'incompatibilità per rapporto di lavoro, tra i docenti, solo a «l'insegnamento o la ricerca in materie giuridiche nell'università, nelle scuole secondarie pubbliche o private parificate e nelle istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione pubblici», escludendo dalla possibilità di esercitare la professione di avvocato, tra gli altri, gli insegnanti elementari. Gli articoli 33 e 3 della Costituzione impongono che sia consentito a tutti gli insegnanti, di ogni ordine e grado, di poter esercitare la professione di avvocato;
delibera di non passare all'esame del disegno di legge, stante la sua incostituzionalità.