• Testo RISOLUZIONE IN COMMISSIONE

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Atto a cui si riferisce:
C.7/00058 La III Commissione, premesso che: da oltre 32 anni la Repubblica Democratica Popolare Lao non ha smesso di infrangere le regole internazionali sui diritti umani, divenendo uno degli...



Atto Camera

Risoluzione in Commissione 7-00058 presentata da MATTEO MECACCI
martedì 14 ottobre 2008, seduta n.066
La III Commissione,
premesso che:
da oltre 32 anni la Repubblica Democratica Popolare Lao non ha smesso di infrangere le regole internazionali sui diritti umani, divenendo uno degli Stati più repressivi dell'Asia, come sottolineano i recenti rapporti di Amnesty International, di Reporters sans Frontières e del Dipartimento di Stato americano;
dal 1975 la RDP Lao è governata da un regime dittatoriale. È infatti uno Stato a Partito unico: il Partito popolare rivoluzionario lao. Qualsiasi altro partito politico è vietato nel Paese e questo principio è scritto chiaramente nella Costituzione. Organizzazioni e istituzioni, diverse da quelle che gravitano intorno al Partito, non sono autorizzate;
la stampa, la radio, la televisione, la rete telematica, l'insieme dei mass media, appartengono al Partito-Stato e sono sotto il suo stretto controllo. La libertà di espressione e di manifestazione è inesistente. Una legge su internet punisce chiunque consulti o metta online elementi che il Partito considera «nocivi all'unità e all'integrità del Paese». Il Governo, inoltre, chiede espressamente ai proprietari dei cyber-cafè di assicurarsi che i loro locali non siano frequentati da «cattivi elementi»;
ogni qualvolta la comunità internazionale viene informata di violazioni dei diritti fondamentali, il Governo del Laos nega qualsiasi propria azione riprovevole. Per le autorità del Laos si tratta sempre di «mere invenzioni» provenienti da «cattive persone» che cercano di «screditare l'immagine del Governo Lao»;
il 26 ottobre 1999 a Vientiane, capitale del Laos, cinque difensori delle libertà e della democrazia: Thongpaseuth Keuakoun, Seng-Aloun Phengphanh, Bouavanh Chanmanivong e Keochay, così come altri giovani responsabili, hanno indetto una marcia nonviolenta di studenti, insegnanti e cittadini laotiani per richiedere riforme democratiche e il rispetto della libertà e dei diritti umani nel Laos. Questo raduno di protesta pacifica, il primo sotto il regime comunista dal 1975, è stato represso sin dal suo avvio e oltre un centinaio di partecipanti sono stati arrestati: ad oltre otto anni dal loro arresto si ignora tuttora se siano ancora in vita;
poche notizie sono filtrate sulla sorte dei cinque leader studenteschi, a parte l'annuncio del decesso in prigione di uno di loro, Khamphouvieng SISA-AT, della cui morte nel 2001, causata da privazioni e maltrattamenti, si è avuta notizia soltanto nel 2004, grazie alla testimonianza di un ex detenuto;
nessuno ha mai potuto visitare i leader del «Movimento del 26 ottobre» ed il Governo Lao ha dapprima mantenuto il silenzio, poi negato i fatti e, in seguito, ha dato informazioni evidentemente contraddittorie e inesatte;
in occasione della visita in Laos di una delegazione del Parlamento europeo, nel marzo dello scorso anno, il presidente dell'Assemblea Nazionale laotiana ha dichiarato al capo della delegazione, Hartmut NASSAUER, che i leader di questo Movimento sono stati liberati nel 2006. Questa presunta liberazione è stata addirittura avallata, senza specifiche, dall'Ambasciata francese a Vientiane malgrado nessuno sia mai stato autorizzato a incontrare i «liberati». Purtroppo realisticamente si deve ritenere non credibili le informazioni ottimistiche accreditate dal regime poiché gli arrestati sono tuttora desaparecidos e sono ancora invano attesi dalle loro famiglie, dai loro amici e dalle organizzazioni internazionali che si sono occupate del loro caso;
una parte della minoranza etnica Lao-Hmong - compresa tra 10.000 e 20.000 persone, in maggioranza anziani, donne e bambini - vive nascosta nella giungla di Saysomboune. Si nutrono di foglie e radici, senza osare accendere fuochi per timore di essere individuati dall'esercito, e in queste condizioni sta scomparendo a poco a poco, a causa delle stragi, della fame, delle malattie. È inoltre vittima di una vera e propria «caccia all'uomo» lanciata dalle forze armate del Governo Lao. Nonostante le puntuali testimonianze rese da giornalisti occidentali ed il fatto che i numerosi avvenimenti gravi siano regolarmente segnalati dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani, le autorità laotiane negano i massacri, (come quello avvenuto e denunciato tra il 5 giugno ed il 22 luglio 2007, nella regione di Phou Bia, dove 67 persone sono state massacrate e di esse oltre la metà erano donne e bambini) e non autorizzano l'accesso ad osservatori indipendenti;
sono circa 8.000 i Lao-Hmong che sono riusciti clandestinamente a rifugiarsi in Thailandia e che ora rischiano di essere forzosamente rimpatriati a seguito nonostante a molti di loro sia già stato offerto di lasciare la Thailandia per l'Australia, i Paesi Bassi, il Canada e gli Stati Uniti e soprattutto nonostante le serie preoccupazioni per la loro incolumità; infatti i gruppi di Lao-Hmong che sono stati sinora rispediti dalla Thailandia nel Laos, hanno visto le loro famiglie disperse, gli uomini arrestati e scomparsi. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e autorevoli organizzazioni di difesa dei diritti umani - tra cui Amnesty International, Forum Asia, Human Rights Watch, Federazione internazionale dei diritti umani - hanno richiesto formalmente di evitare il rimpatrio forzoso di chi è fuggito dal regime e la cui sicurezza e libertà non può essere garantita;
decine di migliaia di laotiani, in maggioranza appartenenti alle minoranze etniche, sono stati continuamente e ripetutamente trasferiti da un posto ad un altro nel corso degli ultimi vent'anni, al solo scopo di consolidare il controllo su di esse. Il Governo della RDPL spiega questi spostamenti di popolazione come il risultato dell'attuazione di una politica di sviluppo rurale e di lotta alla coltivazione del papavero. Secondo le organizzazioni internazionali di difesa dell'ambiente, è di dominio pubblico che «i principali responsabili della distruzione di foreste primarie negli ultimi vent'anni sono state le imprese di sfruttamento del legno, di cui la più importante è controllata dall'esercito laotiano sin dagli anni '80»;
questo programma di trasferimenti forzati coinvolge, tra gli altri, i Hmong, Khmu, Lu, Yao. Costretti ad abbandonare i villaggi di montagna e degli altipiani verso le pianure, questi devono affrontare gravi difficoltà di adattamento, promesse di assistenza non mantenute da parte delle autorità e una progressiva scomparsa del retaggio etnico e culturale. L'indigenza estrema, così come il mancato accesso all'istruzione, alla salute e alle informazioni sanitarie, fa sì che le donne e le minorenni di queste popolazioni spostate lungo le strade, diventino la facile preda delle reti del traffico di esseri umani, della prostituzione e le vittime innocenti dell'Aids e di altre malattie sessualmente trasmissibili;
nella sua trasmissione del 18 ottobre 2007, la radio Voice of America ha rilevato che, secondo la «Anti-Aids Commission», c'è un aumento preoccupante di malati di AIDS, soprattutto nelle regioni di frontiera con la Thailandia, il Vietnam e la Cina;
all'origine dei trasferimenti di massa di popolazione vi sono anche i progetti di dighe idroelettriche. Soltanto la diga di Nam Theun II - la cui costruzione è in corso ed è sostenuta dalla Banca Mondiale - comporterà la dislocazione forzosa di oltre 6.000 abitanti dell'altipiano di Nakai, mentre coloro che sono già stati sfollati attendono ancora l'indennizzo finanziario o materiale che era stato loro promesso;
la repressione delle minoranze religiose, in particolar modo contro i cristiani, continua a inasprirsi. Molestie, pressioni morali, minacce, violenze, confisca delle terre, esclusione dai villaggi sono la sorte dei cristiani del Laos: spesso debbono rinunciare per iscritto alla loro fede per accedere alla funzione pubblica, per entrare in polizia, nell'esercito popolare o nella gerarchia del Partito;
il Dipartimento di Stato americano, nel suo rapporto annuale 2007 sulla situazione della libertà di credo nel mondo, ha classificato il Laos tra i 20 Paesi in cui si continua a «violare significativamente» la libertà di fede e di pratica religiosa;
l'ottavo Congresso del Partito rivoluzionario popolare lao, svoltosi nel marzo del 2006, seguito da elezioni legislative anticipate e dalla formazione di un Governo, non ha portato alcun elemento nuovo per alimentare la speranza di una ventata liberale. Si ritrovano gli stessi nomi al Politburo mentre le «nuove leve» tra i 55 membri del Comitato centrale del Partito sono spesso i figli di alti dirigenti ottantenni costretti a ritirarsi;
le ultime elezioni farsa hanno permesso ai dirigenti della RDPL di vantare una propria legittimità politica presso i donatori e la comunità internazionale mentre si è assistito semplicemente ad una spartizione del potere e della corruzione tra i clan e le famiglie del Partito unico, mentre il popolo laotiano, escluso da una vera partecipazione democratica, sprofonda nella povertà;
32 anni dopo la presa del potere del Partito comunista, il Pil raggiunge appena 400 dollari pro capite l'anno (oltre il 75 per cento degli abitanti vive sotto la soglia di povertà di 2 dollari al giorno), la speranza di vita non supera i 55 anni e, stando alle ultime statistiche della Banca Mondiale, quattro laotiani su dieci non sanno né leggere né scrivere;
in un'Asia in piena crescita, il Laos, al 135o posto nella classifica di «sviluppo umano», rimane un'isola di povertà. Un rapporto della Banca Mondiale ha classificato il Laos tra i 26 Paesi più «fragili» del mondo ed individua nell'instabilità l'elemento che fa di questi Paesi dei «luoghi propizi al terrorismo, alla produzione di droghe e al traffico illegale di armi» e soggetto «all'insicurezza, a una corruzione su vasta scala, alle violazioni della legge e a uno scarso livello di sviluppo»; impegna il Governo:
ad attivarsi in ogni modo e con urgenza per conoscere la sorte dei leader del «Movimento 26 ottobre» e degli altri prigionieri politici e di coscienza, detenuti nelle carceri laotiane senza processo e in contrasto con le regole del diritto internazionale, e a inviare a tal fine una delegazione in loco;
a chiedere al Governo francese se può concretamente confermare la notizia della liberazione dei leader del «Movimento 26 ottobre»;
a chiedere che una delegazione italiana e rappresentanti di organizzazioni internazionali indipendenti possano incontrare i leader del Movimento 26 ottobre se il Governo laotiano ne confermasse la liberazione;
a sostenere gli sforzi dell'UNHCR associandosi alla richiesta di liberazione dei 149 rifugiati Lao-Hmong (di cui 90 bambini, cinque dei quali nati in prigionia), detenuti nel centro per immigrati di Nong Khai in Thailandia dal dicembre 2006, tramite la nostra ambasciata di Bangkok;
ad attivarsi affinché organizzazioni indipendenti internazionali possano verificare le condizioni delle popolazioni Hmong e delle altre minoranze etniche e religiose;
a sostenere in ogni sede opportuna la posizione espressa nella Risoluzione del Parlamento europeo sulla situazione dei diritti umani in Laos (PG_TA(2005)0462) del 1o dicembre 2005;
a inviare il presente atto: al Presidente Choummali Sayasone, al Primo Ministro Bouasone Bouphavanh e al presidente dell'Assemblea nazionale della Repubblica democratica popolare lao Thongsing Thammavong; al Presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso; al Presidente del Parlamento europeo, Hans-Gert Pottering; al Segretario generale del Consiglio dell'Unione europea e Alto Rappresentante per la Pesc, Javier Solana; al Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg; all'Alto Commissario delle Nazioni Unite ai diritti umani, Louise Arbour; all'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Antonio Guterres; al Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon.
(7-00058) «Mecacci».