• C. 3967 Proposta di legge presentata il 15 dicembre 2010

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Atto a cui si riferisce:
C.3967 Modifica dell'articolo 41 della Costituzione, concernente la libertà d'iniziativa economica e il principio della concorrenza



XVI LEGISLATURA
CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 3967


 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE
d'iniziativa dei deputati
BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI, MAURIZIO TURCO, ZAMPARUTTI
Modifica dell'articolo 41 della Costituzione, concernente la libertà d'iniziativa economica e il principio della concorrenza
Presentata il 15 dicembre 2010


      

Onorevoli Colleghi! – Dall'avvento della Costituzione repubblicana il benessere materiale degli italiani si è più volte moltiplicato. Il reddito medio pro capite è prossimo ai livelli di Germania, Inghilterra e Francia. Il patrimonio delle famiglie è pari a quasi dieci volte il loro reddito disponibile, mentre in alcuni degli altri principali Paesi supera appena le sette volte. Il 70 per cento degli italiani abita in una casa di proprietà. La speranza di vita, oltre gli ottanta anni di età, è tra le più elevate al mondo. Il livello dell'istruzione è notevolmente salito. Lo Stato sociale riconosce pensioni pari al 14 per cento del prodotto interno lordo (PIL), rispetto a una media europea dell'11 per cento. Si è trattato di uno straordinario progresso, anche se iniquamente distribuito fra gli strati sociali, tra il nord e il sud del Paese.
      E tuttavia, ormai dall’annus horribilis 1992, l'economia italiana è stretta in quello che da tempo definiscono un «problema di crescita». Una grave sindrome: non di domanda, risolvibile eccitando i consumi, ma di offerta, capacità produttiva e produttività. La produttività, motore della crescita, ha ristagnato, anche nella manifattura. Nell'intera economia la «produttività totale» di lavoro e di capitale è addirittura diminuita (dello 0,5 per cento l'anno) nel 2001-2005.
      Il benessere conquistato nell'arco di decenni è seriamente a rischio. Il Paese ne sta acquisendo contezza. Paventa un futuro di inflazione, tassazione e taglio dei
 

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redditi nominali, le tre forme che l'impoverimento può assumere. Il Paese reagirà, una risposta, tuttavia, dovrà essere sostenuta dalla politica economica e istituzionale.
      Le cause? Negli ultimi quindici anni quattro fasci di forze si sono congiuntamente volti al negativo: concorrenza, diminuita; dinamismo d'impresa, scemato; finanza pubblica, squilibrata; infrastrutture, fisiche e giuridiche, inadeguate. Anche in passato questo stesso coacervo di forze (di mercato e statali), in varia guisa combinate, aveva frenato ovvero, all'opposto, promosso il progresso economico dell'Italia: una penisola strutturalmente povera di risorse primarie – sotto il suolo, nulla, sopra il suolo, poco – e ricca solo di lavoro, dal bracciante all'operaio al piccolo imprenditore.
      Lo sviluppo è stato ostacolato da questo coacervo di forze in altre due fasi storiche, oltre che nel 1992-2008: l'età della sinistra, di Crispi e dei suoi successori, e il ventennio fascista. Cambiate di segno, queste stesse forze hanno invece espresso la crescita molto rapida dell’«età giolittiana» (1900-1913) e il «miracolo» del 1950-1970. In entrambi questi favorevoli periodi forti sollecitazioni concorrenziali, di varia fonte, stimolarono le imprese all'accrescimento dimensionale, all'efficienza e al progresso tecnico; l'accumulazione di capitale, privata e pubblica, trovò riscontro in una più rigorosa gestione delle risorse e delle finanze della pubblica amministrazione; potenziate, le infrastrutture, materiali e immateriali, corrisposero all'avanzamento dell'economia. L'esatto contrario è avvenuto nelle tre fasi di ristagno richiamate.
      La cornice giuridico-istituzionale è stata, nel bene e nel male, sempre importantissima per le sorti dell'economia italiana. Dagli studi econometrici e comparati emerge che la crescita di un'economia di mercato dipende per circa un terzo dall’«esperienza giuridica», nel senso di Capograssi e di Orestano.
      Quindi, vi è più di un motivo per chiedersi – alla luce della storia economica italiana vicina e lontana – se la cornice istituzionale sia acconcia, a cominciare dalla sua dimensione costituzionale. Se sia, cioè, in grado di recare tutto il suo potenziale contributo al ritorno alla crescita della nostra economia. La verifica va incentrata sul suo rapporto con i quattro fasci di forze che si sono confermati cruciali per la performance dell'economia italiana. Se la stessa cornice costituzionale risultasse in qualche aspetto inadeguata, le eventuali correzioni non potrebbero riguardare che la parte strettamente «italiana» della nostra costituzione economica. Nella vigenza dei trattati europei la parte «europea» della costituzione economica dei Paesi membri è sottratta ai singoli Parlamenti. Anzi, la parte «europea» fissa limiti di compatibilità che le eventuali modificazioni nazionali sono tenute a rispettare.
      Una verifica approfondita, a un tempo economica e giuridica, della validità attuale della Costituzione – verifica condotta a distanza di sessanta anni vis à vis sul «problema di crescita» che l'economia italiana vive – sfocerebbe probabilmente nei seguenti due verdetti: a) rilettura e integrazione dell'articolo 41, in particolare introducendo nella Carta costituzionale un concetto di concorrenza più ampio di quello che gli articoli 81, paragrafo 1 e 82 dell'allora vigente Trattato istitutivo della Comunità europea hanno travasato nella legge italiana antitrust n. 287 del 1990; b) riscrittura dell'articolo 81, che però non sarà trattato in questa sede, rinviando a un'ulteriore proposta di legge costituzionale successiva.
      Gli input essenziali della crescita economica restano il lavoro e il risparmio, fonte del capitale. Quantità di lavoro e quantità di capitale, insieme, «spiegano» per circa la metà l'incremento di reddito espresso dall'economia italiana dall'Unità a oggi.
      La cura speciale che la Costituzione rivolge al lavoro ha una giustificazione economico-sociale semplice e precisa, che persiste. Essa è da ravvisare nello strutturale eccesso di offerta di lavoro proprio di una penisola avara di risorse naturali e da sempre densamente popolata. Il recente,
 

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cospicuo flusso di manodopera immigrata aggiunge un ulteriore motivo all'esigenza di tutelare lavoratori e pensionati dai rischi a cui la larghezza di offerta di lavoro li espone: sottoccupazione, dipendenza e povertà, per non dire dei rischi per la salute e per la stessa vita. I morti sul lavoro nella storia dell'Italia unita – 4.000-5.000 all'anno in media – superano i caduti nella prima grande guerra.
      A differenza del passato, lavoro e risparmio sono oggi legati. Metà del flusso di risparmio nazionale proviene dalle famiglie, soprattutto di lavoratori. I lavoratori sono anch'essi rentier, ossia soggetti che percepiscono interessi o rendite su titoli. Più di due terzi della ricchezza finanziaria delle famiglie fa capo a famiglie il cui capo-famiglia è un lavoratore dipendente, ovvero un pensionato ex lavoratore dipendente. È vero che in un'economia mondiale in cui nulla è più globale della finanza la mobilità internazionale del capitale può consentire l'investimento anche a Paesi che risparmiano poco, come da anni avviene per gli Stati Uniti d'America, ma una buona quota di risparmio nazionale proveniente dalle famiglie continua a rappresentare una base più solida per la crescita equilibrata dell'economia nel lungo periodo.
      L'articolo 47 della Costituzione, il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993, il testo unico delle disposizioni in materia di internazionalizzazione finanziaria, di cui al decreto legislativo n. 58 del 1998, gli organismi di supervisione, la funzione di lender of last resort della Banca d'Italia (seppure dimidiata nella sua discrezionalità amministrativa) costituiscono una diga di protezione, da non intaccare, del risparmio degli italiani.
      Per quanto riguarda la nozione di mercato, e la sua utilità sociale, il secondo comma dell'articolo 41 della Costituzione vieta l'iniziativa economica privata in contrasto con la «utilità sociale». Questa, tuttavia, può essere meglio definita. Di «utilità sociale» può darsi un'accezione a un tempo più estesa e chiara se si fa riferimento ai contributi dell'analisi economica in materia dei cosiddetti «fallimenti del mercato». Da quando la Costituzione fu scritta questi contributi si sono consolidati fino a divenire un capitolo standard degli stessi libri di testo di micro-economia.
      Oltre ai vuoti di concorrenza – di cui si dirà in seguito – i casi in cui, secondo questa linea di analisi economica, iniziativa privata, prezzi e mercati ledono l'interesse generale sono fondamentalmente due: carenze informative ed esternalità. Le informazioni che le imprese forniscono possono essere parziali, asimmetriche, false: il venditore di auto usate è sempre più abile del compratore. Le imprese possono non includere nel calcolo dei costi le diseconomie – i danni – che provocano a terzi: una fabbrica può inquinare il circondario.
      In situazioni siffatte – e la casistica è vasta – i mercati esprimono prezzi che non riflettono i costi reali. Le risorse sono mal impiegate. L'utilità sociale è diminuita. Al fine di tutelarla, l'intervento dello Stato trova ampia giustificazione.
      Ma è la nozione della concorrenza la grande assente nel testo della Costituzione. Caratterizzanti e decisive, nella vicenda di ogni economia di mercato capitalistica, sono l'intensità e le forme con cui la concorrenza e altre forze dagli effetti assimilabili hanno stimolato, disciplinato e guidato i produttori. È dall'intensificarsi della «minaccia concorrenziale» – per dirla con Maffeo Pantaleoni – che soprattutto dipendono i miglioramenti della produttività e il contenimento di costi e di prezzi, come pure l'impegno profuso dalle imprese per innovare prodotti e modalità di produzione. Al progresso tecnico e all'efficienza dinamica si deve la crescita di lungo periodo dell'economia italiana per la metà non «spiegata» dalle maggiori quantità di lavoro e di capitale impiegate nella produzione.
      Il termine, e il concetto, di concorrenza non sono presenti nella Costituzione del 1948. La proposta di Einaudi volta a includerli fu respinta.
      L'attenuarsi delle sollecitazioni concorrenziali sulle imprese è la prima causa del
 

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vuoto di progresso tecnico nell'economia italiana post 1992. Permanendo l'assenza di questi stimoli, l'economia continuerà a versare in una peculiare condizione: alti profitti, bassa produttività.
      È necessario andar oltre i riferimenti, pur utili, alla categoria «concorrenza» così come definita prima nel Trattato istitutivo della Comunità europea e ora nel Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. L'accezione del Trattato, e della citata legge n. 287 del 1990, è statistica, e non anche dinamica, è micro e non anche macro-economica.
      L'azione antitrust si limita a contrastare tre fattispecie: concentrazione, intesa e abuso di posizione dominante. La promozione della concorrenza deve certamente mirare ai minimi costi e ai minimi prezzi, per una data struttura dell'economia, ma deve soprattutto mirare alla rimozione degli ostacoli che frenano le innovazioni e la riallocazione dei fattori produttivi. La dimensione dinamica della concorrenza è nella spinta al livellamento dei tassi di profitto fra i produttori. Quindi è nella spinta a fare sì che le risorse, di capitale e di lavoro, siano rilasciate da produzioni, imprese e settori divenuti inefficienti, per indirizzarsi verso impieghi in prospettiva più redditizi.
      L'impegno contro le vie facili al profitto deve inoltre estendersi alle determinanti macro-economiche degli utili. Una spesa pubblica gestita con rigore, un tasso di cambio che non consenta illusori recuperi di competitività di prezzo e una progressione dei salari che non ecceda troppo ma nemmeno segua con ritardo quella della produttività possono esprimere incentivi potenti affinché le imprese perseguano il profitto attraverso l'efficienza e l'innovazione.
      L'Autorità garante della concorrenza e del mercato deve agire secondo priorità. Deve soprattutto intervenire nei settori a più bassa concorrenza che offrono input strategici: quelli che Piero Sraffa chiamava «prodotti base», i quali entrano direttamente o indirettamente in tutte le produzioni. L'Autorità non deve demagogicamente aprire pratiche casualmente innescate dalle proteste settoriali di gruppi di consumatori interessati soli ai beni finali di consumo, anche superfluo. In una visione d'insieme, la promozione della concorrenza dovrebbe avere sempre presente il saldo netto delle diverse forze, micro e macro-economiche, statiche e dinamiche, di mercato e non, che influiscono sulla competizione nell'intero sistema produttivo.
      Occorre minare ogni forma di difesa del «vecchio» rispetto al «nuovo»: monopoli, abusi di posizione dominante e intese, ma anche sussidi pubblici, collusioni fra capitale e lavoro, norme protettive, comportamenti opportunistici e, da ultimo, irresponsabilità.
      La concorrenza in effetti è, da ultimo, l'assunzione diretta di responsabilità da parte dell'impresa. Il valore della concorrenza coincide con produttori che facciano conto in primo luogo su se stessi, escludano di percorrere scorciatoie al profitto, non vadano a «caccia di rendite», nell'accezione che ci ha insegnato Baumol, e non cerchino di trasferire a terzi le eventuali perdite.
      Scolpire questi concetti nella Costituzione, andando oltre la lettera del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea per meglio rispettarne lo spirito, sarebbe di ausilio. Si propone, conseguentemente, di sostituire il primo comma dell'articolo 41 della Costituzione con il seguente: «L'iniziativa economica privata è libera e deve svolgersi in condizioni di concorrenza. Chi la intraprende ne è esclusivo responsabile».
 

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE
Art. 1.

      1. Il primo comma dell'articolo 41 della Costituzione è sostituito dal seguente:
      «L'iniziativa economica privata è libera e deve svolgersi in condizioni di concorrenza. Chi la intraprende ne è esclusivo responsabile».